Va da sé che per “Terminal Redux”, in arrivo a quattro anni e mezzo dal predecessore, si sia formato un hype incendiario, alimentato a dovere da ben tre pezzi resi noti prima della data di rilascio (“Ultimate Artificer”, nota già a novembre 2015, “Charging The Void” e “Pillars Of Sand”). Ora che abbiamo l’album per le mani, vi potremmo semplicemente dire di lanciarvi nei negozi, sui mailorder, ovunque il prodotto sia disponibile, acquistarlo e farvelo recapitare a casa nel minor tempo possibile. Eliminare quindi i disturbi esterni e godervelo. Non ascoltarlo – dovete proprio subirlo, farvelo entrare dentro bruscamente e concedergli di spararvi nello spazio profondo. Se avete imparato a memoria ogni passaggio del materiale già edito, se sbroccate disarmati a ogni accelerata di Blake Anderson dietro le pelli, ripida scala solista di Erik Nelson, acrobazia di Frank Chin al basso e urlo strozzato di David DiSanto, non c’è nemmeno bisogno che andiate avanti a leggere. È rimasto tutto tale e quale, rielaborato e shakerato con frenesia, energia, voglia di stupire e animosità, le stesse che hanno condotto i giovani americani nella prima fascia del metal contemporaneo in tempi brevissimi. La grandezza di “Terminal Redux” sta, come avvenuto del resto coi primi due dischi, in un songwriting che aggiunge qualche nuovo elemento senza operare stravolgimenti, in un bilanciamento sublime di aggressività smodata e peripezie strumentali schizofreniche, perfettamente allineate a un concept fantascientifico molto particolareggiato