Venendo a Translate, lo stesso Abbott lo descrive un disco visivo e cinematico, tanto luminoso e accogliente quanto dark e minaccioso. Un equilibrio che i suoi arrangiamenti puramente elettronici scolpiscono con il solito approccio in presa diretta, come ad un live. L’arte del Nostro è fatta di pieni e di vuoti, con i crescendo a legarli tra loro (Our Scene o Ames Window) e a sottolineare la (mediata) spontaneità delle composizioni. Flux si avventura in modulazioni cosmiche mentre in Living Dust e Feed Me Shapes claustrofobici grumi sonori arrivano ad accartocciarsi su loro stessi seppur seguendo strutture ritmiche diverse (più glitch la prima, maggiormente marziale e industrial la seconda). Le atmosfere, ciclicamente, si rasserenano: in pezzi come Roses, Luna, o nella conclusiva August Prism, c’è della fioca luce a trapelare dai circuiti.