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CRONACHE DAL SIREN FESTIVAL – VASTO, 21-24 LUGLIO 2016 - MusicClub numero 271
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CRONACHE DAL SIREN FESTIVAL – VASTO, 21-24 LUGLIO 2016

Occorre da subito chiarire che il Siren (ideato da Louis Avrami, organizzato da DNA Concerti e Stardust Production) è un vero e proprio festival, non una rassegna. Un festival dal vigoroso respiro internazionale dove le scelte artistiche abbracciano stili multicolori e si fondono alla perfezione nelle incantevoli location offerte dalla città di Vasto. Il mare Adriatico fa capolino da Piazza del Popolo e ci regala una cartolina della Costa dei Trabocchi dove mare e vegetazione selvaggia si abbracciano sullo sfondo, ed il puzzle per l’inappuntabile soggiorno si completa con la tipica gastronomia abruzzese, dalle antiche radici contadine (gli arrosticini sono un vero must del festival !). E se eterogenea è la struttura naturalistica del paesaggio che circonda Vasto, disparata e varia risulta essere anche l’intelaiatura musicale del festival. La programmazione attraversa diagonalmente il quadro di riferimento delle varie contaminazioni rock succedutesi negli ultimi decenni, con uno sguardo rivolto alle nuove rivelazioni italiane. Dai senatori dell’alternative, onorevoli Lee Ranaldo e Thurston Moore, ai Notwist, responsabili di aver condotto a nozze romanticismo pop ed elettronica. Dal folletto anti-folk Adam Green alla techno & house di Marco Passarani. Dagli artefici del dream pop A.R. Kane ai nuovi emergenti italiani come Cosmo e Francesco Motta. Venerdì, ad accogliere la piccola e temprata rappresentanza marchigiana, con cui ho condiviso questa gradevole tre giorni, c’è una lunga coda al botteghino. Si notano molte persone con i braccialetti giornalieri ai polsi e subito si percepisce aria di sold out, di certo agevolata dalla presenza degli Editors. Alle ore 22 l’unica sovrapposizione presente nel mio personale piano di priorità mi costringe a rimbalzare Cosmo per appostarmi sotto il palco posto nel cortile del Palazzo D’Avalos, simbolo maestoso della città ed esempio di architettura rinascimentale. Un lato interno del cortile, dirimpetto al portone di ingresso, si colora di rosso, bianco, verde e azzurro, è la proiezione di un immagine tratta dall’ultimo lavoro di Adam Green, Aladdin. Il disco è la colonna sonora del suo ultimo lisergico film, Adam Green’s Aladdin (nel 2010 realizzò con un iPhone il lungometraggio The Wrong Ferarri) che deforma e reinterpreta il celebre racconto tratto da “Le mille e una notte”. Il film, finanziato grazie a Kickstarter, un crowdfunding per progetti creativi, vede tra gli altri la partecipazione di Devendra Banhart, Macaulay Culkin (l’ormai non più ragazzino di Mamma Ho Perso L’aereo) e l’artista Francesco Clemente. Appena salito sul palco il nostro si trasforma in un folletto impazzito, salta a destra e sinistra, si allunga dal palco per battere un cinque sulle mani del pubblico in prima fila, dimostra senza fronzoli di possedere la rara capacità di apparire, nelle sue interpretazioni, simpaticamente sfrontato. L’intero concerto scorre via velocissimo. Friends Of Mine (dall’omonimo disco del 2003), Dance With Me (da Garfield, 2002), Who's Got The Crack (brano targato The Moldy Peaches), Me From Far Away, Nature Of The Clown e Buddy Bradley (tratta da Minor Love) trasportano il pubblico dentro un mondo fanciullesco e folle ed un beato sorriso si solleva da molti volti del pubblico al termine di ogni esecuzione. Sebbene abbia dovuto saltare Cosmo apro comunque una parentesi su di lui, se non altro per giustificare l’intenso ascolto de “L’ultima Festa” che mi ha accompagnato nei giorni precedenti il festival. Si tratta del secondo lavoro di Marco Jacopo Bianchi, da Ivrea, già testimone del movimento indipendente italiano quale componente dei Drink To Me. Nonostante questo disco nel suo complesso appaia scorrevole dal punto di vista melodico e dimostri un’ottima musicalità nella struttura dei brani, emerge dopo vari ascolti una fioca sofferenza nel metodo con cui vengono inquadrati i numerosi suoni elettronici, senza dubbio estrosi, nelle varie forme canzoni. Suoni elettronici per lo più estrapolati dal panorama dance anni ’90, e a tal proposito si pensi a Chime degli Orbital, ad I've Been Thinking About You dei London Beat o addirittura al dance pop dei C+C Music Factory, autori della celebre Gonna make you sweat (Everybody dance now). Nella totalità degli elementi che compongono questa “ultima festa” ci troviamo difronte a un disco che lascia di certo ben sperare, anche alla luce del bel live, a detta di amici fidati, che è andato in scena nel palco di Porta San Pietro. E per chi voglia approfondire può cercarsi il video presente sul web, con tanto di invasione sul palco, un bel momento di rara e sana corrispondenza tra artista e pubblico ! Prima di goderci Adam Green ha avuto luogo sul palco principale uno dei concerti più attesi, Calcutta. Anche su questo artista sento l’urgenza di soffermarmi, sebbene non sia riuscito a vedere tutto il suo concerto. Edoardo D’Erme proviene da Latina, nel cuore dell’Agro Pontino, e dopo aver suonato ovunque nello stivale ha cavalcato un sempre più crescente successo, testimoniato dalle folle presenti ai suoi concerti che lo hanno consacrato a nuovo idolo indie. Il realtà il suo secondo lavoro, Mainstream (si, ho appena scritto le parole Indie e Mainstream in brevissimo spazio !), stupisce per la semplicità melodico strutturale, efficace in alcuni brani (Frosinone e Gaetano), tediosa per la maggior parte del disco, dove si rincorrono medesimi accordi e poche variazioni. Di contro ha il “merito”, o la fortuna, di cogliere in pieno la faccia triste dell’immaginario moderno, di chi si “sente libero non lavando i piatti con lo Svelto”. Per mettere a fuoco l’evoluzione mediatica di questo artista dovremmo allora focalizzare l’attenzione verso l’irragionevole termometro che misura il grado dell’opinione pubblica e verificare quanto forte ed immediata sia la tendenza, da parte di stampa e pubblico, a scortare Calcutta dritto nell’olimpo, che lo stesso stia dentro ovvero fuori dal palco. Ne fuoriesce una fotografia sbiadita e senza troppe angolazioni di una generazione che sembra aver dimenticato l’eredità lasciata dai padri costituenti della canzone popolare e cantautorale italiana. L’ironia e la spontaneità di Enzo Jannacci, il racconto poetico del disagio firmato Fabrizio De Andrè, Theorius Campus. E scrivo di getto e veemenza questi tre nomi solo per disegnare una costellazione di riferimento, fatta di profondità artistica e rilievo intellettuale, e per fissare uno sfondo nel quale il nostro sembra al massimo assumere la traiettoria di una piccola stella (de)cadente. In verità, l’aspetto che più spaventa di questo “fenomeno” è l’univoco consenso che ha trasformato Calcutta in un’icona musicale, un consenso che sembra però trascurare la pericolosa danza nel traballante confine tra disincanto popolare e superficiale qualunquismo. In ultimo, malgrado non sia riuscito a raggiungere alti livelli di concentrazione durante la sua esibizione, il live mi è sembrato buono, suonato e cantato sostanzialmente bene. A darci il benvenuto nel secondo giorno di festival è un senatore del movimento “sonico”. Oggettivamente, Thurston Moore ha fissato e scritto attraverso i pionieristici Sonic Youth le regole che hanno segnato la storia della musica rock alternative. The Thurston Moore Band, dalla classica impostazione batteria/chitarre/basso è al Siren Festival per presentare The Best Day, disco che, diversamente dai precedenti lavori, sembra indirizzare lo sguardo al passato remoto, ma senza malinconie, piuttosto comprovando l’abilità di saper mescolare a regola d’arte tutte le ampiezze sonore raccolte nel suo curriculum. I riff di chitarra ammaliano già nei primissimi ascolti e le vere e proprie cavalcate di basso, chitarra e batteria manifestano scenari irrequieti, quasi paranoici. Quell’angolazione forbita del noise che lo stesso Moore ha brevettato poco più di trent’anni fa riemerge con un volto nuovo, moderno e fresco, semplicemente bello. Da segnalare, su tutte, la monolitica Speak To The Wild, brano d’apertura del disco e del concerto, e Aphrodite. Terminato il concerto non c’è tempo da perdere, il tragitto tra il Cortile D’Avalos e Piazza del Popolo è breve ma inversamente proporzionale alla distanza tra i mondi che separano l’ormai sudato Thurston Moore ed i Notwist, che invece si accingono, a distanza di pochi minuti, a salire sul main stage. Inversione proporzionale che è linfa vitale per un festival che vuole guardare alto. Ora con la testa bisogna viaggiare indietro fino a febbraio 2003 perché l’uscita di Neon Golden dei Notwist, che possa piacere o meno, ha segnato un solco indelebile, una nuova era in cui elettronica e cantautorato folk hanno, in un certo senso, iniziato a muoversi congiuntamente, uniti da un affetto imprevedibile. Dal disco che i Notwist hanno eseguito interamente nella serata di sabato, è nato un nuovo stile, elegante e sopraffino, dove le aperture pop lasciano spazio e tempo a raffinati intrecci elettronici. Uno stile che ha condizionato buona parte dello scenario indipendente europeo negli anni a seguire, basti ricordare quale risonanza abbiano avuto, anche nella provincia italiana, tutti i lavori targati Morr Music, etichetta che oggi, con uno sguardo più maturo e cronologicamente lontano, possiamo qualificare come precursore del movimento indietronico. Come con Moore, anche qui coincidono brano di apertura del disco ed inizio concerto e dal pubblico si sente alzare il coro “..one step inside.. doesn’t mean you understand..”. Alcune esecuzioni, ad esempio Pilot, vengono arricchite da intramezzi strumentali ed elettronici a valorizzare in modo più deciso l’ingresso dei noti ritornelli. Subito a seguire arriva il fulmine a ciel sereno, la vera sorpresa del festival. Al Tuborg stage di Porta San Pietro, aperto anche ai non possessori di biglietto, suona l’ex membro dei Criminal Jokers. Francesco Motta sembra un viaggiatore attratto dalla possibilità di addentrare le proprie emozioni dentro un caleidoscopio monocolore. Dalla scrittura dei brani escono figure geometriche che tratteggiano ambienti malinconici, ipnotici ed ossessionati, a volte sfuocati ma simultaneamente cristallini. I tratti melodici accarezzano scenari al confine con le alienazioni mentali di chi ha intuito una chiave di lettura trasversale di sentimenti ed emozioni vissute, come protesi a leccare ferite mai rimarginate. In ultimo, e non è cosa di poco conto, lo sviluppo del concerto ci fa cogliere il senso profondo della ricerca di questo artista, i brani acquistano un groove impetuoso e coinvolgono mente e corpo. Nel disco c’è il sigillo di un pezzo da novanta, Riccardo Sinigallia, che si è occupato, magistralmente come al solito, della produzione di questo disco d’esordio. La sensazione è che la canzone d’autore possa aver trovato un nuovo esponente e che per il momento Motta abbia cominciato a costruire un castello solido, su basi ritmiche compatte e melodie convincenti (“Sei bella davvero“ ne è esempio lampante). La ciliegina sulla torna viene messa domenica, con Josh T. Pearson e la sua intima esibizione all’interno della chiesa di San Giuseppe. Oltre i contenuti già descritti, e chiedo venia per i non citati o appena citati, è doveroso lodare gli abitanti di una città che ha saputo interagire ed ospitare come si deve un festival (non si registrano aumenti di prezzi nei bar, c’è da stupirsi !) e la macchina organizzatrice, perché molti involontariamente lo ignorano, ma dietro una grande riuscita come questa c’è sempre un gran lavoro, che possiamo proclamare ampiamente ben fatto. Al 2017 !
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