Pietro Antonio Bruna-Rosso, alpino classe 1896, nato a Elva in Val Maira, a ottant’anni decide di scrivere “quello che ricordo della mia vita”. Prende in mano la penna e con la sua grafia limpida ed ordinata riempie 40 pagine di foglio protocollo. Ed ecco scorrere davanti a noi l’immagine della sua mamma colta dalle doglie del parto mentre era in montagna a portare il pranzo al marito che falciava e che subito viene trasportata con la slitta già carica di fieno nella stalla di casa a partorire; la sua infanzia di pastore, ma soprattutto ecco presentarsi la terribile esperienza della prima guerra mondiale. Pietro Antonio è costretto ad abbandonare le sue montagne della Val Maira, per andare a combattere in prima linea, al fronte in Veneto e Trentino. E qui i ricordi diventano vivissimi, quasi che quel tempo fosse ancora il tempo dell’oggi. Vediamo le crudeltà della guerra, ma altresì la capacità, anche nei momenti più disperati, di non perdere l’umanità. C’è la vita quotidiana, di un uomo che sa che può morire da un momento all’altro, ma che affronta la situazione con un proprio personale eroismo quotidiano. Un eroismo non gridato, non ideologico, non esaltato, ma vissuto con la modestia di chi sapeva che quello era, in quel momento, il suo dovere. Ed ecco che momenti storici come la rotta di Caporetto, le battaglie sul Monte Nero, perdono ogni retorica e si presentano a noi con i fuochi in lontananza dei paesi bruciati e le granate di cannone che scoppiano al suo fianco uccidendo compagni ed amici. C’è la sua sorpresa nel vedere, una volta conquistate le trincee nemiche nei pressi di Gorizia che lì c’erano slarghi con brandine, tavolini, latrine; la scoperta di una guerra che non fa distinzione tra buoni e cattivi perché i buoni e i cattivi sono ovunque, perché gli orrori sono equamente distribuiti, come quel suo comandante che non si oppone a quei fanti che sparano contro nemici che avanzavano con le mani alzate e la bandiera bianca. C’è la consapevolezza dell’importanza della disciplina, quella stessa che la famiglia gli aveva imposto con tremenda durezza fin da bambino, ma altresì la considerazione che se si è salvato è grazie ad un atto di insubordinazione del suo compagno che nonostante fosse vietato dal regolamento occuparsi dei feriti, lo porta in spalla al sicuro sul monte, prima di tornare a combattere. C’è la prigionia in Ungheria, i ricoveri in ospedale, la faticosa avventura del ritorno in Italia. C’è la pace con il suo carico di speranze deluse, e l’ emigrazione clandestina in Francia da solo prima, poi con la moglie, per ricordarci, anche se oggi fingiamo di non sapere, che siamo stati anche noi per molti anni emigranti clandestini in terre straniere. Ma come sottofondo a tutto ciò, emerge con forza incedibile che esce da ogni pagina, un profondo amore per il suo paese Elva, per la casa dei suoi avi, per la sua lingua l’occitano, lingua che ha sempre coltivato e parlato. E c’è l’amore per il sapere, per la poesia. L’orgoglio per una vita libera ed onesta.
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